Pibinho, “Piletto” (pib è la sigla portoghese del nostro pil): così in Brasile hanno ribattezzato il basso livello di crescita dell’economia, di recente misurato ufficialmente dalla Banca Centrale e pari nel 2012 ad appena l’1,35%. Come già ricordato, questo valore è drammaticamente al di sotto della media regionale del 3,1%.
Alla base di questo risultato ci sono diversi elementi, secondo la Banca Centrale. In primo luogo, la riduzione degli investimenti dovuta alla crisi internazionale. Poi, il calo del 2.7% della produzione industriale. L’export è diminuito a causa dei peggiori raccolti di soia e riso. L’indebitamento delle famiglie brasiliane è aumentato. Il consumo a fine anno si è inaspettatamente ridotto. Infine, l’Argentina ha incrementato le barriere all’importazione di prodotti brasiliani.
D’altra parte, i problemi di inflazione di Argentina e Venezuela e quelli politici con il Paraguay stanno intaccando l'intero apparato del Mercosur. Dilma Rousseff insiste nel dire che, grazie ai governi del Partito dei lavoratori (Pt), il Brasile ha appena trascorso il miglior decennio della sua storia. Questo è sostanzialmente vero. Tuttavia, la stessa Dilma per il 2012 aveva promesso una crescita al 4%.
Malgrado vari pacchetti di stimolo, esenzioni tributarie, misure protezionistiche, tagli dei costi in particolare dell’energia elettrica, non c’è riuscita. C’è la speranza che per il 2013 si torni al +3%, grazie anche all’effetto volano dei lavori per mondiali e Olimpiadi. Siamo comunque lontani non solo dal +7,5% del 2010, e, con esso, anche da una delle ragioni primarie di appartenenza al club dei Brics, di cui in ogni caso rimane l’altra caratteristica fondante: il grande potenziale geopolitico.
Si teme che troppi stimoli finiscano per alimentare un’inflazione di livello argentino o venezuelano: non siamo ancora a quei tassi (superiori al 20%), ma già a fine 2012 si era arrivati al 5,84%. Probabilmente è casuale, ma l’allarme sul “Pibinho” arriva quasi in contemporanea con il viaggio che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha fatto nella regione tra il 21 e il 25 febbraio, durante il quale ha visitato Perù, Panama e Colombia.
Si parla spesso di Françafrique per ricordare l’importanza che Parigi continua ad attribuire al suo ruolo in Africa, confermata appunto da Hollande con l’intervento in Mali. Anche l’America Latina è un luogo storico di interesse per la politica estera transalpina, fin dai tempi in cui i geopolitici legati a Napoleone III coniarono l'espressione stessa di America Latina per enfatizzare il possibile ruolo francese nella regione. Dunque, c’è anche Françamériquelatine.
Hollande accusa appunto Sarkozy di aver ridimensionato questa posizione con una serie di scelte sbagliate che risalgono in realtà all’epoca di Chirac. All’inizio, con la cosiddetta “betancourtizzazione” delle relazioni con l’area, concentrate nel tentativo altamente mediatico ma di scarsa rilevanza effettiva di ottenere la liberazione di Íngrid Betancourt, cittadina francese per matrimonio oltre che colombiana. Una politica che alla fine ha avuto il solo risultato di irritare il governo e l’opinione pubblica colombiani, visto che la Betancourt, ostaggio delle Farc, è stata poi liberata dalle forze speciali di Bogotá.
Altrettanto goffa è stata la gestione del caso Florence Cassez: cittadina francese arrestata nel 2005 in Messico con le accuse di sequestro di persona, associazione a delinquere e possesso di armi e munizioni da guerra; condannata nel 2008 a 96 anni di carcere, poi ridotti in appello nel 2009 a 60; infine liberata il 23 gennaio 2013 dopo l’annullamento della condanna per vizi procedurali da parte della Corte Suprema del Messico. Non senza che, nel febbraio del 2011, non si fosse consumata una vera e propria guerra diplomatica, con la decisione di Sarkozy di evocare il caso Cassez a ogni celebrazione dell’”Anno del Messico in Francia”, e - in risposta - l'annullamento dell'evento da parte dei messicani.
Insomma, la Francia ha finito per limitare la propria politica latino-americana quasi solo alle relazioni col Brasile; queste ultime, caso Battisti a parte, pressoché esclusivamente al tentativo affannoso di piazzare i loro caccia multiruolo Rafale: un affare che ben tre presidenti brasiliani di fila hanno rinviato per ben 12 anni. Hollande ha dunque parlato espressamente di un nuovo corso e ha iniziato a giocare a tutto campo. Lui stesso è andato al G20 a Los Cabos in Messico e a Rio+20, e, pur senza recarsi anche al vertice Ue-Celac di Santiago del Cile, ha mandato una rappresentanza di alto livello con il primo ministro Jean-Marc Ayrault (in Italia non siamo andati oltre il sottosegretario Marta Dassù), che di passaggio ha visitato anche Buenos Aires.
Ovviamente, il Brasile non è stato trascurato e il viaggio del ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian dimostra che comunque Parigi non rinuncia all’affare dei Rafale. Hollande sembra comunque aver percepito che l’economia latino-americana in questo momento sta decollando, soprattutto sul versante del Pacifico, e dopo Ayrault a Santiago ha mandato anche prima il ministro del Commercio Nicole Bricq in Ecuador e Colombia, e ora appunto anche Fabius.
Il fatto che il ministro dell’Economia sociale e solidaria Benoît Hamon, leader della sinistra del Ps, sia stato anche incaricato dei contatti col Venezuela del malato Hugo Chávez dimostra che nessun aspetto è stato tralasciato. Con i problemi del Brasile e del Mercosur - va ripetuto - gli affari in questo momento si fanno soprattutto nel Pacifico. In Colombia, ormai la seconda economia del Sudamerica, le imprese francesi rappresentano i primi datori di lavoro stranieri. La Francia è, dopo la Spagna, il secondo paese per accoglienza degli studenti colombiani in Europa.
Anche il Perù sta adottando un nuovo programma di borse di studio che favorisce le università francesi, mentre a Panama ci sono i contratti per l’allargamento del Canale e per la metro. Comunque, Fabius andrà entro fine anno anche in Brasile. Non va né considerato l’unica sponda latinoamericana né trascurato, anche perché il paese continua comunque ad avere corteggiatori in quantità. Uno ad esempio è il Giappone, che vuole proporre il progetto per la costruzione di una superpiattaforma galleggiante per la ricerca di petrolio.
Un altro è la Russia: il primo ministro Dimitri Medvedev è venuto in visita il 20 e 21 febbraio, firmando accordi di cooperazione in ambito sportivo e riuscendo a vendere cinque batterie antiaeree, in vista dei mondiali di calcio e delle Olimpiadi.
Medvedev si è recato poi dal 21 al 23 anche a Cuba, dove ha ristabilito l’alleanza strategica dei tempi dell’Urss, tagliando una parte dei 30 miliardi di dollari di debiti, firmando alcuni accordi di cooperazione in campo energetico, industriale e farmaceutico e vendendo otto aerei per un ammontare di 650 milioni: tre Antonov An-158, tre Ilyushin Il-96-400 e due Tupolev Tu-204SM.
In effetti, la Russia è ancora il nono partner economico dell’isola, anche se nel 2012 l'interscambio è lievemente diminuito: -0,3% di export russo e -0,1% di import. Come all'epoca sovietica, l’interesse strategico di Mosca ad avere una sponda nei Caraibi continua a essere più importante della assoluta, storica non complementarietà tra due economie entrambe ostinatamente produttrici soprattutto di materie prime. La società russa Zarubezhneft non riesce a trovare petrolio nel mare cubano, malgrado le perforazioni che continua a fare con la piattaforma norvegese Songa Mercur.
A Cuba, dove la visita di Medvedev dimostra chiaramente l’intenzione di tutelarsi qualora Chávez venisse meno in Venezuela, dopo le elezioni che hanno visto Fidel Castro tornare deputato all’Assemblea Nazionale del Potere popolare, Raúl è stato rieletto presidente per altri cinque anni; ha però promesso che sarà il suo ultimo mandato. L’erede designato è Miguel Díaz-Canel: un 52enne ingegnere elettronico, già ministro dell’Istruzione superiore tra il 2009 e il 2012, è definito dai cubanologi un personaggio “brillante ma senza carisma”.
Un tecnocrate che è venuto da una carriera all’interno della nomenclatura di partito. Attenzione però: sull’incarico di numero due a Cuba c’è una maledizione quasi peggiore di quella che pende in Italia sui presidenti della Camera! Roberto Robaina, Carlos Lage, Felipe Pérez Roque e Carlos Valenciaga sono stati tutti delfini silurati nel modo più feroce, ogniqualvolta i Castro hanno percepito che stavano assumendo eccessiva velleità di indipendenza.
Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Longitude, Theorema, Risk, Agi Energia. Ha redatto il capitolo sull’Emisfero Occidentale in Nomos & Kaos Rapporto Nomisma 2010-2011 sulle prospettive economico-strategiche. Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo, in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche. È autore di Ultras. Identità, politica e violenza nel tifo sportivo da Pompei a Raciti e Sandri.