In laboratorio Sorin, quotata in Borsa a Milano, realizza valvole cardiache meccaniche ma anche biologiche (foto in alto), utilizzando il tessuto bovino. Il gruppo impiega circa mille persone a Saluggia e 800 a Mirandola, complessivamente nel mondo ha 3750 dipendenti
Il biomedicale italiano? Siamo come Davide contro Golia», dice Rosario Bifulco, da quattro anni alla guida di Sorin Group come presidente esecutivo. «E così – prosegue – mentre le grandi multinazionali comprano aziende già consolidate nella crescita per conquistare quote di mercato o nuovi mercati, noi facciamo di necessità virtù e acquistiamo partecipazioni di minoranza di start-up nel nostro settore, assicurandoci anche un’opzione per comprare l’intera azienda. Sono operazioni che costano meno dell’acquisto di una società già avviata, ma ovviamente sapremo solo tra qualche anno se i nostri investimenti avranno successo».
Anche così si fa sviluppo in una multinazionale tascabile – ma non troppo, Sorin ha fatturato lo scorso anno oltre 700 milioni di euro – che lavora in un settore dove l’Italia vede poche eccellenze. Nata più di mezzo secolo fa da una joint venture tra Fiat e Montecatini dedicata alle ricerche nel nucleare, Sorin ha avuto mille trasformazioni produttive e societarie. La penultima l’ha portata nell’orbita della Hopa di Chicco Gnutti e adesso è controllata da un nucleo di investitori finanziari dove spiccano la Mittel, il private equity Equinox, il Monte dei Paschi di Siena e l’Unipol. Da decenni attiva nel biomedicale adesso lavora in due settori: la chirurgia cardiaca e i prodotti per il ritmo cardiaco, dai pacemaker ai defibrillatori impiantabili.
Quale ricetta per la crescita mentre le spese per la Sanità pubblica in Occidente vengono tagliate?
«Bisogna partire dal fatto che uno dei settori dove operiamo, quello del ritmo cardiaco, fino a due anni fa cresceva a doppia cifra e adesso non più. Dipende certo dai tagli alla spesa sanitaria nei maggiori Paesi occidentali, che hanno anche innescato una forte competizione sui prezzi, ma anche da uno studio Usa che ha mostrato come il campo di applicazione di questi dispositivi potesse essere ridotto. Di fronte a questo quadro la crescita bisogna “comprarsela” all’esterno: acquisendo aziende in espansione oppure, come facciamo noi per risparmiare, investendo direttamente sulle start up».
Con quali mosse fino ad ora?
«Nel settore della neurostimolazione per il trattamento dello scompenso cardiaco abbiamo investito in due riprese nell’israeliana Enopace, l’ultima volta un mese fa, e alla fine dello scorso anno abbiamo preso una quota della belga Neurotech. Nella riparazione e sostituzione della valvola mitrale, invece, abbiamo investito nell’americana Cardiosolutions e nella francese HighLife».
E i nuovi mercati, oltre a quelli occidentali, dove sono?
«Noi concentreremo molti sforzi sui Paesi emergenti, in Brasile e Cina, che sono due grandi mercati, è importante essere locali. Nel primo Paese abbiamo appena acquistato una piccola azienda, la Alcard, specializzata in macchine cuore-polmone, che adesso farà anche i nostri prodotti. In Cina esiste addirittura un doppio mercato per i prodotti locali e internazionali; là abbiamo cercato a lungo una partnership che pare però assai difficile da stringere. Così se entro quest’anno non troveremo un’intesa partiremo con un impianto nostro. Discorso diverso è quello dell’India, che è un mercato difficile, assai competitivo come prezzi, e della Russia, che è un mercato in crescita ma dove è alto il rischio di non essere “compliant”».
Il terremoto dello scorso anno ha causato gravi danni allo stabilimento di Mirandola e ha portato anche a una diminuzione di fatturato, sceso dell’1,7% a 731 milioni. Quest’anno che cosa succederà?
«Prima di tutto mi lasci dire che il terremoto per noi ha avuto anche degli aspetti positivi. Nel senso che dopo il sisma è venuta fuori quella capacità degli italiani di rimboccarsi le maniche e lavorare assieme in momenti davvero difficili. Detto questo l’obiettivo di quest’anno sarà prima di tutto recuperare fatturato. Poi, ovviamente, il 2013 sarà anche l’anno in cui cercheremo di capire se le start up di cui abbiamo acquistato quote ci daranno qualche soddisfazione. Certo è che nel prossimo triennio bisognerà cercare qualche fonte di crescita anche all’esterno del gruppo».
Cioè fare shopping? Che disponibilità avete?
«Oggi abbiamo circa 70 milioni di debito, generiamo ogni anno 60/70 milioni di cassa e godiamo di buona reputazione bancaria. Direi che un centinaio di milioni per un’eventuale operazione che ci rafforzi potremmo trovarli».
Oltre a essere cacciatori si può essere anche prede. Pensate che qualcuno potrebbe comprarvi. In fondo avete azionisti prevalentemente finanziari che prima o poi vorranno uscire...
«Non credo che ci sia un acquirente industriale interessato a prendere tutta la Sorin, perché lavoriamo in settori troppo diversi uno dall’altro. Discorso differente se si pensa ai singoli settori, che potrebbero essere di qualche interesse di chi già opera in quel campo».
Con aziende medio-piccole rispetto agli standard internazionali può nascere anche in Italia un settore biomedicale?
«E’ difficile che avvenga, siamo pochi e molto frammentati come tipo di prodotti. Oltre a noi penso a Esaote, Bracco, Amplifon e Diasorin. E In più l’associazione di settore è dominata dai gruppi stranieri che vedono l’Italia come un mercato e non come un luogo dove produrre. Attorno ai nostri siti qualcosa nasce: a Saluggia, ad esempio, si sta sviluppando una certa attività di imprese legate a noi e a Diasorin. A Mirandola invece c’è quello che si può definire il polo non del biomedicale, ma di Mario Veronesi, l’imprenditore che crea aziende del settore e poi le vende».
Cosa servirebbe all’Italia per crescere in questo settore?
«Prima di tutto un mercato grande come quello Usa, che vale dieci volte il nostro. Poi ovviamente negli Stati Uniti c’è più finanza e un forte trasferimento di tecnologia dalle Università al mondo delle imprese, cosa che da noi accade solo da poco. E poi solo con i grandi gruppi si possono creare vere filiere del settore. A Minneapolis, ad esempio, attorno alla Medtronic c’è il maggior distretto del settore al mondo».
“«In Italia è difficile che nasca un polo biomedicale, siamo pochi e molto frammentati come tipo di prodotti»”