Il gigante sudamericano, nell’immaginario collettivo degli italiani, non occupa più lo spazio che presidiava cinque o sei anni fa, la ragione principale va appunto ricercata nelle costanti pressioni inflazionistiche, cui i Governi progressisti non sono riusciti a porre argini efficaci.
La ragione secondaria, ma non per questo da trascurare, consiste nella super valorizzazione del real, che negli ultimi anni non ha subito alcuna svalutazione nei confronti dell’euro, che pure si dice sopravvalutato rispetto al dollaro. Andiamo con ordine. Negli ultimi dodici mesi, secondo l’Ibge (Instituto brasileiro de geografia e estatística), il tasso d’inflazione ha raggiunto quota 6,5 per cento, sforando abbondantemente le previsioni di Brasília.
Il balzo dei prezzi non ha avuto il solo effetto di ridurre il potere d’acquisto dei consumatori, ma preoccupa anche industriali ed economisti, da cui sono giunte dure critiche all’équipe economica di Dilma Rousseff. Da più parti si richiedono misure drastiche, specie l’aumento dei tassi d’interesse, che però secondo molti analisti potrebbe rappresentare un boomerang.
Intanto poche ore fa la Banca centrale ha deliberato l’aumento del tasso ufficiale d’interesse di un quarto di punto percentuale, portandolo al 7,5 per cento. Ma la cura andrebbe piuttosto ricercata nella riduzione dei margini di profitto, e nella lotta senza quartiere per diminuire il cosiddetto 'custo Brasil', e il radicato gap infrastrutturale.
Secondo Samy Dana, docente di economia presso la Fundação Getulio Vargas di San Paolo, «la ripresa dell’inflazione è estremamente dannosa per il Paese. L’aumento dei prezzi pregiudica il potere di acquisto della popolazione, e soprattutto delle classi meno abbienti, che con meno soldi da spendere corrono maggiori rischi di indebitarsi e rimanere inadempienti. Ma non è tutto», chiosa il ricercatore, «l’inflazione crea soprattutto uno scenario d’incertezza per l’imprenditore, che timoroso per gli sviluppi futuri dell’economia nazionale, tende a sospendere o rimandare gli investimenti, a danno della crescita».
I mercati, e non poteva essere altrimenti, non stanno reagendo serenamente alle rinnovate pressioni inflazionistiche. «Si registra un aumento dei livelli di sfiducia nei confronti del Brasile, sia dal punto di vista micro che macroeconomico», ha dichiarato Alessandra Ribeiro, analista della società di consulenza Tendências, «da un lato si ha la sensazione che il Banco central abbia perduto la propria autonomia nella gestione della politica monetaria. Dall’altro lato, si stanno acuendo le incomprensioni tra il Governo e le imprese, come dimostra la circostanza che in Brasile il tasso d’investimento è in deciso calo rispetto alle altre nazioni emergenti».
E senza nuovi apporti di capitali, spiega Ribeiro, ne risente la produzione, con le inevitabili ripercussioni su crescita e livelli occupazionali.
E cosa sta facendo l’Esecutivo di fronte a queste minacce? Sembra che sinora, per abbassare i prezzi, il titolare dell’Economia, Guido Mantega, abbia saputo tirar fuori un unico coniglio dal cilindro: sgravi fiscali generalizzati alle imprese, con la speranza che poi queste facciano ricadere il vantaggio sui consumatori.
I benefici stanno riguardando svariati settori, da quello automobilistico agli smartphone 'made in Brazil', passando per le bollette della luce. (Inoltre l’Amministrazione federale sta negoziando con gli enti locali per evitare gli aumenti dei servizi di trasporto, nda).
Come si può intuire, si tratta di una contromisura per sua natura aritraria, e come tale esposta alle violente raffiche di critiche provenienti dal settore produttivo. E inoltre i manuali di economia insegnano che queste ricette possono rappresentare solo un palliativo (o un sollievo temporaneo), giacché i prezzi poi tendono inevitabilmente a riallinearsi alle condizioni di mercato.
Ma quali sono le cause dell’inflazione brasiliana, che sta addirittura stravolgendo le abitudini (anche alimentari) dei cittadini, ed è ormai divenuta un must della rete? I media locali – forse peccando di eccesso di schematismo, ma facendo senz’altro un favore ai lettori – identificano cinque fenomeni quali cause del turbinio finanziario che colloca il Brasile (l’'Indice Big Mac' docet) tra i Paesi più cari al mondo. In primis si segnala lo squilibrio tra il (giustamente) celebrato boom, e l’insufficiente capacità produttiva. Per chi segue le vicende verdeoro la storia è nota: il surriscaldamento economico innescato dai proventi dell’export delle commodity ha da un lato fatto uscire milioni di persone dalla povertà – celebrandone l’ingresso nella classe media – ha ridotto ai minimi di sempre il tasso di disoccupazione, e creato un’abbondanza di credito da Paese di Bengodi. Ma dall’altro lato, questo gigantesco aumento di consumatori ha cozzato con l’insufficienza di beni e servizi disponibili, e con l’incapacità dell’industria di stare al passo con la crescita: unico risultato possibile, secondo il gioco della domanda e dell’offerta, l’impennata dei prezzi.
La seconda causa è il citato 'custo Brasil': produrre in Brasile è più caro rispetto agli altri Paesi emergenti, soprattutto per il ritardo infrastrutturale che da secoli grava sul tessuto produttivo.
Né, sia detto per inciso, si è approfittato della recente epoca delle vacche grasse per il necessario cambio di rotta. Le lacune riguardano sia il sistema di trasporti, sia l’inadeguatezza della rete energetica (in Brasile si applicano tariffe tra le più elevate al mondo), sia altri aspetti logistici, come i sistemi di stoccaggio.
La terza causa consiste nell’elevata pressione fiscale, che si accompagna al caos della legislazione tributaria, e più in generale a una burocrazia kafkiana.
Il quarto punto consiste nell’accennato 'lucro Brasil': gli imprenditori che operano per il mercato sudamericano hanno l’innegabile tendenza ad applicare margini di profitto più elevati.
Il fenomeno raggiunge limiti neppure immaginabili nel settore auto: le vetture fabbricate in patria sono in genere più care degli identici modelli che una volta prodotti in Brasile, vengono esportati in Messico.
Infine, è il quinto aspetto, gioca un ruolo rilevante l’indole stessa dei cittadini, che dimostrano un’elevata propensione al consumo e all’indebitamento, a fronte di una scarsa attitudine al risparmio.